Le mele sono sempre state un frutto dalle indubbie proprietà organolettiche, e in particolare sono ricche di flavonoidi, polifenoli, vitamine e sostanze antiossidanti. Purtroppo, però, l’eccessiva industrializzazione dei sistemi di produzione le ha quasi trasformate in un frutto “dalla buccia avvelenata”.

Il grosso della produzione è detenuto da due grossi consorzi, rispettivamente della val di Non (Trentino) e della val Venosta (Alto Adige), che usano una quantità ingente di pesticidi e concimi chimici, al punto tale che molti fiumi di quelle zone si trovano le acque contaminate; inoltre, storicamente ci sono numerosissime varietà di mele, ma il commercio standardizzato ne ha selezionate solo cinque, oltretutto reperibili tutto l’anno, quando invece è proprio il periodo da fine autunno fino alla fine dell’inverno quello in cui dovrebbero essere consumate.

Non è però affatto impossibile andare a riscoprire le antiche varietà o le produzioni di nicchia: bisogna avere una buona attenzione nel cercarle. In primo luogo, occorre tener presente che le mele più hanno un aspetto “brutto” meno trattamenti chimici hanno subìto, ergo è buona cosa scegliere quelle non troppo grandi e non troppo lucenti nell’aspetto: si contribuirà così a sostenere le produzioni che usano basse o nulle quantità di trattamenti chimici di sintesi.

Le annurche sono da molto tempo tornate sul mercato, sono tipiche della Campania ma diffuse anche nel Lazio, e non hanno subito un processo di standardizzazione commerciale come è successo alle più note Fuji e Stark. Queste ultime due varietà, tra l’altro, sono originarie di altri paesi, mentre le annurche sono presenti da due millenni in Campania, quindi sono a tutti gli effetti una varietà completamente autoctona. La coltura avviene tramite la sistemazione delle mele sui melai, ossia filari di paglia ricavati dalla trebbiatura; un tempo si usavano anche filari di canapa, abbandonati in seguito quando questa pianta fu proibita .

Molte varietà di mele sono frutto di incroci o sono state introdotte da altri continenti; niente di male in ciò, gli incroci e gli innesti si sono sempre fatti tra specie o varietà affini (è appunto anche questo che li distingue dalle manipolazioni transgeniche, che si basano sull’immissione di materiale genetico da specie anche molto lontane, per esempio il gene di un batterio nella fragola o del ravanello nella banana, e creano varietà sterili che sono chiaramente uno strumento di monopolio da parte dei colossi agroindustriali), come anche le introduzioni di specie o varietà da altri continenti può talvolta arricchire l’ecosistema locale, sempre che sia fatta in maniera ponderata e non a scapito delle varietà locali. Comunque per quanto riguarda le mele è un’ottima cosa andare a riscoprire le varietà autoctone italiane, che sono proprio quelle che rischiano di essere dimenticate, a parte appunto le annurche che si trovano quasi ovunque nell’area laziale e campana.

La mela dei monti Sibillini ha forma piccola e colore giallo-verdognolo, polpa zuccherina e profumo intenso. Il raccolto avviene nella prima decade di ottobre e i frutti si conservano fino ad aprile.

La mela Limoncella è sicuramente originaria del Sud Italia e ha trovato il suo habitat ideale in Campania ed in Molise, ma è ampiamente diffusa anche in Abruzzo e nel Lazio. Ha color giallo intenso con lenticchie color ruggine, forma globosa o cilindro-conica, polpa zuccherina e leggermente acidula. Viene coltivata in aree collinari e la raccolta avviene in genere prima delle piogge autunnali. In Campania viene usata anche per la produzione del sidro, che lì ha la qualifica di Prodotto Tradizionale Agroalimentare; si tratta di una produzione poco nota, giacché le più note produzioni di sidro sono quelle francesi, britanniche e irlandesi, buona parte del sidro venduto in Italia proviene da quei paesi; in realtà ovunque si coltivino mele si può fare il sidro, e la preferenza nell’acquisto per i sidri italiani sarebbe di grande aiuto per una maggior valorizzazione delle filiere locali.

Anche in Piemonte abbiamo un’ampia varietà di mele di varietà antiche, per esempio la tondeggiante Grigia di Torriana o la Gamba Fina dalla forma appiattita. Sul sito della Fondazione Slow Food per la Biodiversità se ne trova un’ampia gamma.

Per quanto riguarda la Lombardia, nella sola provincia di Lecco ci sono almeno 12 varietà antiche da riscoprire, per esempio la Calvilla di Montevecchia (la cui origine è sconosciuta, se ne trovò un esemplare sulla collina di Montevecchia), dal bell’aspetto medio-piccolo, con buccia di un bel rosso profondo, striato qua e là.

E anche nello stesso Trentino Alto-Adige vi sono piccole produzioni sostenibili al di fuori delle colture intensive della val di Non e della val Venosta, e servono sia per il consumo come frutti freschi sia per la produzione di succhi, marmellate e sidri.

E ci sono tantissime altre varietà locali dimenticate in giro per l’Italia e per il mondo, ovviamente per descriverle tutte bisognerebbe scrivere almeno dieci pagine. Ottima cosa sarà dedicarsi alla riscoperta delle varietà locali iniziando a cercare le piccole aziende di prossimità, sia per i frutti sia per i derivati . La biodiversità agricola è fondamentale per la Terra al pari di quella animale e vegetale, con le scelte di consumo consapevoli possiamo contribuire a tutelarla.

 

Lorenzo Janulardo