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Sodio ed ipertensione. Ma quanto c’e’ di vero in tutto questo?

Il sale, o meglio il sodio in esso contenuto, è da tempo ritenuto un importante fattore causale per l’aumento della Pressione Arteriosa.

Negli ultimi anni diversi studi di popolazione finalizzati alla valutazione delle relazioni tra assunzione di sodio, morbosità e mortalità,  hanno contribuito a radicare, anche se non senza ambiguità e conflittualità, il concetto dell’importanza della riduzione di questo ione nella dieta, come iniziativa di profilassi o di prevenzione dell’ipertensione.

Nonostante ciò, studi recenti hanno dimostrato un effetto nocivo della riduzione di sodio in pazienti che abbiano subito un arresto cardiaco (Paterna 2009) o siano affetti da diabete (Thomas 2011).

Finora, la raccomandazione di ridurre l’apporto di sodio è stato basato sull’ipotetico benefico effetto sulla pressione arteriosa, nonché gli auspicabili benefici in termini di riduzione della morbilità cardiovascolare e mortalità.

Varie sono le prove emerse da numerosi studi randomizzati o riportate in reviews Cochrane riguardo agli effetti della ridotta assunzione di sodio sulla pressione.

Nonostante ciò, diversi studi nel corso degli ultimi anni hanno dimostrato che la riduzione del quantitativo di sodio della dieta sia in grado di influire su altri importanti parametri ematici quali: il quadro lipidico (colesterolemia e triglicedidemia) ed i valori di diversi ormoni (renina, angiotensina, aldosterone e catecolamine).

Una meta-analisi appena pubblicata sull’American Journal of Hypertension si è presa la briga di valutare quale potesse essere il bilancio reale, in termini di benefici, della riduzione del contenuto di sodio nella dieta di soggetti normo ed ipertesi. Il lavoro, elaborato sulla base di 167 studi, ha messo in evidenza che il raffronto tra l’esposizione ad una dieta normale a basso contenuto di sodio rispetto ad una ad alto contenuto in soggetti Normotesi caucasici (bianchi non ispanici) determinava una riduzione media della Pressione Arteriosa (PA) inferiore all’1%. Questo risultato modesto, è probabilmente conseguente ad un significativo e persistente aumento dei livelli plasmatici di renina e di aldosterone e, in misura minore, ad una riduzione dei livelli ematici di adrenalina e noradrenalina.

A questo dato, non entusiasmante, si associano però alcune evidenze piuttosto interessanti e non di secondo piano. In effetti la riduzione dei quantitativi di sodio della dieta, ha comportato un incremento significativo della colesterolemia (+2,5%) e della trigliceridemia (+7%) che, in percentuale, è risultata quindi numericamente maggiore rispetto alla riduzione pressoria. A causa degli effetti relativamente piccoli e per la loro natura antagonista (diminuzione della pressione arteriosa, variazione dei livelli ematici di alcuni ormoni e dei lipidi), questi risultati non supportano la convinzione che la riduzione di sodio possa avere effetti benefici netti in una popolazione di soggetti normotesi di razza caucasica.

Al contrario, in caucasici ipertesi, la riduzione delle quantità di sodio della dieta è in grado di produrre, in breve tempo, la diminuzione del valore della PA dal 2 al 2,5%. Ciò conferma che la riduzione del sodio possa essere utilizzata come trattamento aggiuntivo per l’ipertensione in questa particolare tipologia di soggetti. Lo studio sembrerebbe anche indicare che nel caso di soggetti ipertesi asiatici e neri, l’effetto sulla pressione arteriosa conseguente all’adozione di una dieta a ridotto contenuto di sodio sia anche maggiore. Purtroppo attualmente gli studi al riguardo sono troppo pochi studi per poter confermare questa ulteriore tesi.

Il lavoro completo e scaricabile al seguente link:

http://www.nature.com/ajh/journal/v25/n1/pdf/ajh2011210a.pdf